Tre mesi di meditazione e silenzio nelle montagne della California
Il Sangha e il bisogno di solitudine
La mia esperienza nel Sangha, la comunità monastica, iniziata nel lontano 1977, è sempre stata caratterizzata da una grande devozione e da un impegno tanto fisico quanto interiore.
Dal 1990 al 1995, in qualità di abate, mi sono ritrovato a gestire la ristrutturazione del monastero Santacittarama, conducendo allo stesso tempo ritiri, incontri di meditazione e occupandomi di vari compiti amministrativi.
Tutto questo ha comportato un notevole dispendio di energie, spesso a discapito della mia salute.
In quegli anni ho avuto poche occasioni di pausa, e ancora meno tempo per approfondire il kāya viveka — la solitudine fisica, così essenziale nella pratica monastica.
Un invito da Ajahn Amaro
Fu in quel contesto che il mio amico Ajahn Amaro, allora residente ad Amaravati, mi parlò della possibilità di trascorrere il Ritiro delle Piogge in California, assieme a lui e ad altri tre bhikkhu.
Mi raccontò che Daniel Barnes, membro della Sanghapala Foundation, metteva a disposizione una proprietà immersa nella natura, ideale per un ritiro solitario.
La proposta aveva due obiettivi:
- offrire ai monaci l’opportunità di praticare in solitudine,
- offrire alla comunità buddhista californiana un contatto diretto con la vita monastica nella foresta, anziché limitarsi a frequentare ritiri in città o in centri.
Bell Springs Hermitage: il luogo del ritiro
Arrivammo così al Bell Springs Hermitage, un’area remota a 3.800 piedi di altitudine (circa 1.160 metri), che offriva vedute spettacolari in tutte le direzioni.
Vivevamo separati l’uno dall’altro, dislocati in piccole vallette all’estremità della proprietà di 170 acri. Tre monaci avevano tende a cupola, mentre io potei utilizzare una roulotte già presente.
Ci si incontrava solo una volta al giorno, per il giro dell’elemosina verso la cucina. Il resto del tempo era dedicato alla pratica individuale in completo silenzio.
Durante le fasi lunari, ci riunivamo nella yurta mongola che fungeva da sala del santuario per la meditazione notturna e la discussione del Dhamma. Nei giorni di luna piena e nuova, celebravamo insieme la recitazione del Pātimokkha, le regole monastiche.

Un Ritiro tra le Nuvole
Il clima fu clemente per quasi tutta la durata del ritiro. Di giorno il sole splendeva, e le notti erano limpide e silenziose.
Uno spettacolo meraviglioso ci attendeva spesso: la nebbia marina che risaliva dalle vallate a ovest, trasformando il paesaggio in un oceano di perle ondeggianti, mentre noi stavamo al di sopra delle nuvole, illuminati dal sole.
Nell’ultimo mese del Vassa, la natura ci regalò effetti atmosferici sorprendenti:
- aloni colorati attorno al sole e alla luna,
- un arcobaleno bianco, apparso per ben due giorni consecutivi.
Meditazione senza obiettivi
Trascorrere tre mesi senza impegni specifici apre inevitabilmente alla domanda:
“Cosa dovrei fare?”
Non avevo obiettivi precisi per la pratica, ma desideravo meditare, riposare e rigenerarmi, approfondendo gli Insegnamenti del Buddha.
All’orizzonte si profilavano anche progetti futuri:
- un libro in fase di scrittura,
- nuovi impegni con l’Unione Buddhista Italiana,
- la ricerca di una nuova sede per il Santacittarama,
- e diversi ritiri in programma.
Un territorio già abitato
Appena arrivati al Bell Springs Hermitage, fu chiaro che stavamo entrando in un luogo già abitato.
La remota posizione (a 13 miglia da una strada sterrata) aveva permesso alla fauna selvatica di prosperare.
Ogni giorno incontravamo una madre cerbiatta con il suo piccolo, che pascolavano all’alba, al tramonto, e talvolta sotto la luce della luna.
Non avevano più paura di noi. Si nutrivano accanto a noi, cercando tra le erbe secche, la corteccia delle querce, o le ghiande sparse a terra.
Trovammo anche schegge di pietra e una punta di freccia, residui della presenza umana precedente.
Il venerabile Sugato, un tempo archeologo, datò la freccia a circa 900 anni fa.
Quei ritrovamenti evocavano un senso di continuità e semplicità: la presenza di generazioni che avevano vissuto lì in pace, ben prima dell’arrivo dell’uomo bianco.
Un ritiro basato sulla fiducia
Erano passati diciassette anni dal mio primo ritiro intensivo di meditazione. Ricordo che quel primo ritiro di dieci giorni fu particolarmente arduo, poiché avevo iniziato la pratica solo da qualche mese e non avevo ancora trovato un certo agio nella postura fisica. L’esperienza predominante, durante quei giorni, fu l’intenso dolore fisico che accompagnava le ore di pratica guidate dal mio maestro, Ajahn Sumedho.
L’intensità del dolore non permetteva ai pensieri di emergere e distrarmi; per questo motivo, trovai proprio nella sensazione dolorosa un punto di riferimento costante, che mi permise di raggiungere un buon livello di concentrazione. Questo fu possibile grazie alla mia determinazione nel rimanere presente con la sensazione del dolore. Di tanto in tanto, questa stessa sensazione svaniva quasi per incanto, per poi riemergere gradualmente, con un’intensificazione che lasciava presagire un’altra ora di sofferenza. Il corpo stesso era spesso indolenzito e contratto, proprio a causa del dolore.
Se continuai a praticare, fu solo perché avevo fede nell’insegnamento del Buddha-Dhamma e negli effetti liberatori della pratica. Negli anni successivi partecipai a molti altri ritiri e vissi diverse occasioni di piena immersione nella meditazione. In realtà, forse furono pochi rispetto all’impegno comunitario nel lavoro e nella gestione amministrativa della comunità. In ogni caso, mi sono sempre sentito fortunato ad avere avuto queste preziose opportunità di meditare a lungo, in solitudine.

Un viaggio oltre la mente
Questo ritiro in California fu, in fondo, un atto di fede.
Nessun insegnamento formale. Nessuna struttura rigida. Solo il tempo e lo spazio per la pratica profonda.
Fu toccante vedere come la comunità buddhista locale reagì a questa opportunità.
Chi veniva, non lo faceva per ricevere qualcosa, ma per dare. Per servire.
Ogni fine settimana, due, tre, quattro persone facevano il lungo viaggio dalla Bay Area. Molti di loro erano cittadini, poco abituati all’assenza di stimoli o al silenzio assoluto della natura.
Lì non c’era elettricità. La città più vicina era a trenta chilometri. Il buio della notte era puro e profondo.
Alcuni ne erano intimoriti — paradossalmente, pur vivendo in luoghi dove violenze, furti e aggressioni sono molto più comuni che tra gli alberi.
Ma alla fine, tutti ringraziavano, profondamente, per aver avuto la possibilità di staccare dalla frenesia urbana e ritrovare la quiete del cuore, anche solo per un po’.

Meditando, sii sicuro come una millenaria foresta
Ricordo che il mio quarantesimo compleanno segnò un momento di profondo cambiamento. Lo trascorsi in una foresta di sequoie millenarie in California. Come ho scritto mi trovavo sulle montagne californiane per un ritiro di pratica intensiva in solitudine della durata di tre mesi e dedicavo intere giornate, a volte sino a tarda notte, alla pratica meditativa seduto su una pietra che sovrastava una vallata. Di fronte a me c’era una collina la cui forma ricordava un grande cuore. Era una curiosa formazione geologica, erosa probabilmente dall’acqua che ne aveva incavato la cima. Il gioco delle ombre e delle luci accentuava al mattino la forma del cuore, che scompariva a mezzogiorno quando la luce più intensa e diretta non creava ombre che ne facessero risaltare la forma. Questo apparire e scomparire del cuore mi riportava alla mente le parole del Sutra del cuore della saggezza, nel quale il bodhisattva Avalokiteshvara, rivolgendosi a Sariputra, eminente discepolo del Buddha, dice: “La forma è vuoto, e il vuoto è forma. Il vuoto non è altro che forma, e la forma non è altro che vuoto”.
Nei tre mesi della mia pratica meditativa mantenni l’attenzione su quella forma. Ogni volta che mi distraevo bastava aprire gli occhi per ritrovarla, a volte visibile e altre volte no. Era come se la terra mi mandasse un messaggio molto chiaro, il messaggio di porre l’attenzione sul cuore e di non scostarmi da quello che sentivo nel profondo. Potete immaginare come una pratica intensiva di questo tipo, con un riferimento così preciso, sia stata un’occasione unica, per intensità, chiarezza e precisione, di esplorare con umiltà e onestà quello che sentivo dentro di me. Alla fine del primo mese la pratica cominciava a sortire il suo effetto, sentivo che in me si stava sciogliendo qualcosa.
Alloggiavo in una piccola roulotte nascosta in un boschetto di querce, dove mi rifugiavo quando il caldo diventava troppo intenso per la pratica meditativa all’aperto. Alternavo la pratica camminata nelle zone ombrose del bosco alla pratica seduta. Trascorrevo le mie giornate in un ambiente stupendo, vivendo momenti di profonda introspezione in un quadro di una semplicità estrema e consumando un unico pasto al giorno secondo la tradizione dei maestri della foresta.
Una rinascita
Un mattino mi svegliai alle prime luci dell’alba. Come ero solito fare, uscii immediatamente e, salendo di corsa sulla montagna, raggiunsi il punto da cui potevo vedere il sorgere del sole. Quel mattino, raggiunta la pietra sulla quale mi sedevo di solito, mi fermai non per incrociare le gambe nella posizione del loto tipica della postura del Buddha, ma semplicemente per sedermi. Provai la strana sensazione che la pietra mi abbracciasse con cura materna, mi accovacciai assumendo quasi la posizione di un feto, e cominciai a piangere a dirotto. Su quella grande pietra questo corpo umano stava nascendo. Si stava forse avverando il messaggio sibillino ricevuto poco prima la mia partenza per l’America da un misterioso amico spirituale: “Un vento improvviso e impetuoso fa sventolare l’abito del monaco subito sopra i calzari. Quella è la bandiera, quello è il tempio ben fondato, non c’è più latitudine, non c’è più punto cardinale. Il vento soffia e va dove vuole, e nessuno lo vede”. Fu come essere animato da un soffio vitale che percorreva veloce e ormai inarrestabile tutto il mio sistema nervoso, svegliando ogni cellula e rendendola viva. Ebbi la chiara percezione che di lì a poco la vita mi avrebbe chiamato a fare un passo, un passo molto importante, ma al tempo stesso molto sofferto.
Ero ovviamente turbato da quella esperienza. Un mio confratello, un monaco di nome Amaro (Immortale), che si era accampato nei paraggi per fare il suo ritiro sulla stessa montagna, mi incontrò all’ora della questua e, vedendomi pensieroso, dopo aver raccolto il cibo per la giornata si fermò nella mia roulotte per parlarmi, o meglio per ascoltarmi. Non avevo molto da dire, ma non potei trattenere le lacrime e gli inzuppai l’abito. Lui mi abbracciò, mi chiese se poteva fare qualcosa per me, e non potei che rispondergli: “Continua a praticare, è la cosa migliore che tu possa fare per me”.
Il giorno seguente, Amaro mi diede una poesia sorta dal cuore compassionevole in ricordo del nostro fraterno abbraccio:
Le calde lacrime benedette del consacrato riceve la mia veste,
ciascuna il grembo di incalcolabili Tara.
Ardono come fragili ruote solari contro il cielo della sera
liberando l’essenza di luce e di empatia nella nascosta intimità del mio essere.
In quelle innumerevoli mani è offerta interamente la mia vita,
una volta di più restituita ai suoi legittimi padroni.
La porta nel gioiello di azzurro opalescente si schiude
e lei riceve, circondando, abbracciando, dissolvendo quel che io sono.
Calzami come un guanto, benedetta, e che le tue dita riempiano le mie,
che la tua lingua abiti la mia,
che le dita dei tuoi piedi, i tuoi scuri piedi di loto, entrino nelle mie, guidandole sul sentiero.
Ma lei c’è veramente? Uno strano profumo, opulento e fiorito
intenso aleggia nell’aria della notte.
è forse un’eco della sua dolce presenza? O la fragranza del suo prezioso, ermetico segreto?
Sorride generosa. E in quell’alveo di luce immensamente vasto che è il suo cuore incorrotto, oltremarino,
sa con certezza di essere vuota di realtà inerente.

Dal profondo del mio cuore sentivo di essere accompagnato in un processo di trasformazione interiore. La poesia mi rincuorò e rese quasi tangibile la presenza spirituale di Tara che, nelle sembianze di una giovane dalla natura eterna, è l’incarnazione della devozione costante, nata dall’amore e rafforzata dal voto di liberare tutti gli esseri viventi. Il suo nome significa Liberatrice o, per usare termini cristiani, Salvatrice, e occupa un ruolo preminente nella pratica religiosa del buddhismo tantrico tibetano. Rappresenta l’energia illuminata, la saggezza che percepisce la realtà, e la sua azione è rapida ed efficace nel liberare tutti gli esseri dalla paura e dalla sofferenza. Possiede le proprietà dell’energia femminile che genera, sostiene e incoraggia la vita, e le qualità di una madre amorevole che soccorre i suoi figli.
Un mese dopo cadeva il mio quarantesimo compleanno e sapevo che in quella occasione, in Italia, una devota thailandese di nome Teo aveva fatto stampare dei medaglioni che su un lato recavano l’immagine del Buddha e sull’altro la data del mio quarantesimo compleanno. Apprezzai molto il gesto, perché nella tradizione buddhista vuole essere di buon auspicio ed è un modo per il devoto di accumulare meriti ricordando la nascita di un maestro di Dharma. Quel giorno, come regalo, mi venne offerta la possibilità di trascorrere gran parte della giornata in una foresta di sequoie e di meditare in questo ambiente straordinario. La mia impressione, entrando in quella foresta di alberi secolari alti centinaia di metri e dal fusto enorme, fu carica di emozioni. Capii per la prima volta cosa significava entrare in contatto con la sacralità del suolo, percepii la sua infinita energia che permetteva alle maestose sequoie di slanciarsi verso il cielo e di radicarsi nella terra. Mi sentii all’interno di una cattedrale in cui gli alberi facevano da colonne a una volta celeste. Nella foresta c’erano anche alberi caduti per vecchiaia e che marcivano al suolo. Cadendo, con la loro massa avevano distrutto tutto ciò che avevano incontrato nella loro caduta. Erano chiari segni di un processo della natura, il modo in cui gli esseri si slanciano verso il cielo e come, ogni qual volta sono veramente capaci di essere veicoli di energia per una confluenza tra terra e cielo, toccano i cuori delle persone.
Verso la fine del soggiorno, concentrai la mia meditazione sulla fede, sulla fiducia di potercela fare, e sull’entrare in quello spazio interiore che non ha bisogno di pianificazioni.
Questo ritiro mi donò una rinnovata energia, una chiarezza di visione, e una connessione più profonda con la natura e con l’essenziale. Fu un tempo prezioso per riposare, per ascoltare, per ritrovarmi e accudirmi.
Una stagione di silenzio in cui ho ritrovato me stesso camminando sopra le nuvole, seduto in meditazione su una pietra, in dialogo silenzioso con il cuore della terra.

Riflessione emersa a conclusione dal ritiro:
Il mio sedicesimo Ritiro delle Piogge si conclude questa sera con una splendida luna piena. Il sole ha illuminato le nostre giornate negli ultimi tre mesi, quindi in effetti questo Vassa rimarrà nella mia memoria come il ritiro della luce. È stato un tempo molto prezioso, in quanto mi ha offerto un’opportunità unica per riposare dalle pressioni crescenti della vita: sia nell’offrire insegnamenti a una comunità laica buddhista in rapida crescita, sia nel ruolo di Abate del monastero Santacittarama in Italia. Le molte giornate e notti trascorse in meditazione e solitudine in questo splendido contesto naturale hanno avuto un effetto profondamente curativo sul cuore, permettendomi di entrare in contatto con le mie emozioni ed esplorare aree difficili della mia vita con una maggiore capacità di consapevolezza riflessiva.
È stato un tempo di raccolta, sia dei frutti dello sforzo che della forza necessaria per ritornare nel mondo con un cuore compassionevole. Come le stagioni della natura, anche la nostra vita spirituale segue cicli di realizzazione, riposo e contemplazione.
La disponibilità di Ajahn Chandapalo e il venerabile Jutindharo nel prendersi cura delle cose durante la mia assenza mi ha permesso di offrire sostegno ad Ajahn Amaro. Anche se non avevamo trascorso molto tempo insieme negli ultimi dodici anni, sentivamo entrambi un forte legame di amicizia, avendo condiviso i primi quattro anni di vita monastica nella stessa stanza a Chithurst e Harnham. Non sapendo quasi nulla su dove e come si sarebbe svolto il ritiro, ho avuto fiducia che le cose si sarebbero sistemate. In ogni aspetto la mia fede nella benevolenza dell’universo è stata ben riposta. Nonostante alcuni problemi organizzativi, il ritiro era ben strutturato e pronto per cominciare al nostro arrivo.
La nebbia del mattino che si alzava dalla valle e si dissolveva nell’aria mi ha offerto uno spunto sulla natura effimera di tutte le cose. Le innumerevoli cavallette che si accoppiavano nei campi sotto il sole caldo mi spronavano a superare definitivamente la lussuria. Quasi calpestare un serpente a sonagli mi ha ricordato della morte incombente. La paura di essere attaccato da un orso o spruzzato da una moffetta di notte mi ha fatto notare quanto fossi identificato con il corpo. La natura insegna in modo molto diretto, con una saggezza terrena. Se solo sapessimo ascoltarla, potremmo imparare molto. Visitare le Sequoie Rosse il giorno del mio 40° compleanno è stato come entrare in una cattedrale per una funzione religiosa. Gli alti alberi, alti più di 100 metri, erano come le colonne perfette del tetto di una chiesa.
Che tristezza riflettere sul disastro ecologico della nostra epoca! Un giorno il cielo era coperto dal fumo di un incendio: 12.000 acri di una riserva naturale vicina erano bruciati per la negligenza di alcuni campeggiatori che avevano lasciato incustodito il loro fuoco. Un momento di disattenzione può distruggere l’intero pianeta, così come un momento di rabbia può annullare i benefici di settimane di pratica spirituale. L’opportunità di restare in silenzio per la maggior parte del tempo e di respirare profondamente l’aria fresca di montagna mi ha permesso di sciogliere tensioni e ansie accumulate. Nel riconoscere la mia solitudine e il mio dolore, ho abbracciato in modo illimitato tutti gli esseri senzienti con un cuore sconfinato. Guardando l’erba secca mossa dal vento mi sono chiesto: “Da dove viene questa forza che muove l’universo?” Non ho ricevuto risposta dal vento e non ho costretto la mia mente a trovarne una. Volere porre fine alla sofferenza della nascita, vecchiaia, malattia e morte richiede coraggio. Volere la verità senza amore è una forma di arroganza. Imparare l’umiltà è morire nell’amore. Come viandante su questa cima di montagna senza sentieri, guardando il colle a forma di cuore nella valle sottostante, ho scoperto che la Terra si prende cura di noi, se la rispettiamo. Ho tratto beneficio da una vita vissuta nella semplicità, nella natura e nell’insuperabile Dhamma. Ancora una volta ho preso rifugio, votandomi a seguire il Sentiero del Buddha.





