Nella lingua pali ci sono termini che non hanno esatti equivalenti nel nostro lessico. Dukkha è forse quello che comprende più significati; viene tradotto spesso con “dolore, pena, sofferenza, angoscia, stress o insoddisfazione” e indica una condizione di profondo disagio esistenziale, che letteralmente vuol dire: “difficile da sopportare” (etimologicamente da du = difficile e kha = sopportare). Dukkha è la condizione di sofferenza che accomuna tutti gli esseri senzienti. Come disse il Buddha Śākyamuni in occasione del suo primo discorso, il Dhamma cakka pavattana sutta, è la condizione inerente a tutti gli stati dell’esistenza ciclica (samsara) che affligge tutti gli esseri. Dukkha è la seconda delle tre caratteristiche dell’esistenza; la prima è anicca, l’impermanenza, e anatta (non-Io o non-sé) è sicuramente la caratteristica più difficile da cogliere e realizzare.
Altri termini pali hanno un corrispondente nella nostra lingua ma con diverse sfumature di significato. Uno di questi è saddhā (Sanskrit: śraddhā), che il più delle volte viene tradotto con “fiducia”. Il termine “fiducia” ricorre frequentemente nelle mie riflessioni. In realtà, saddhā è qualcosa di più della fiducia nella sua accezione più comune, della fiducia per così dire profana e secolare, ma non è la fede come l’intendono le religioni monoteiste e in particolare la religione cattolica. La fede intesa come incondizionata, cieca adesione al verbum magistri è estranea al Buddhismo. Saddhā indica la ben consolidata fiducia in noi stessi e nell’insegnamento, ne riconosce il valore e si esprime con viriya, con energia, con un grande entusiasmo, la determinazione appassionata, sincera e ben diretta di realizzare la verità. È fede/fiducia basata sulla conoscenza, non fede cieca, ed esprime l’entusiasmo del praticante nei confronti del compito di tutta una vita (o forse di più vite!): “la realizzazione spirituale”.
La sua caratteristica principale è la purezza della motivazione, della nobile aspirazione al risveglio spirituale per il beneficio di tutti gli esseri. È questa fede/fiducia che ci sostiene nella “pratica religiosa”. Questa non è altro che il vivere e il morire istante per istante, con consapevolezza. La comprensione stessa dell’insegnamento insito in ogni esperienza ci permette di realizzare la vera natura della mente, che è come l’acqua chiara o un cielo luminoso, e dei fenomeni che sono vuoti e inconsistenti, seppur spesso belli e attraenti come bolle di sapone. Il risultato è la calma, la serenità, la pace. È il riposante appagamento dell’animo conseguente al dissolversi dell’incertezza, per cui il fedele prende rifugio nel Buddha, nel Dhamma (la Dottrina) e nel Sangha (nella comunità dei praticanti). Attraverso una fiducia di fondo negli insegnamenti così come rappresentati dai Tre Gioielli, la nostra fede nella possibilità del risveglio si accresce fino alla piena realizzazione della cessazione di dukkha, fino alla realizzazione di una profonda libertà interiore.
Questo orientamento della coscienza viene convalidato e rafforzato grazie all’esperienza diretta descritta dalla parola sacchikiriya, che letteralmente significa: “vedere con i propri occhi”.
Pasāda è un altro termine nella lingua pali che, per quanto non sia sinonimo di saddhā, viene tradotto pure con “fiducia” in mancanza di un vocabolo che ne renda adeguatamente il senso. Pasāda ha diverse valenze semantiche: trasparenza, limpidezza, chiarezza, e inoltre gioia serena e riposante, acquietamento, calma. Per esperienza personale, posso dire che mantenere questo stato è più facile nella situazione protetta di un monastero buddhista. Affacciarsi al mondo richiede di certo una maggiore vigilanza, equilibrio, molta saggezza e compassione.
Questi insegnamenti, inscritti nelle parole che il Pali ci offre, sono un richiamo alla consapevolezza, alla pazienza e all’entusiasmo per la pratica, elementi chiave per attraversare il samsara con uno spirito saldo e fiducioso.